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Sport | 24 luglio 2023, 11:42

Gli Agnelli e la Juve, una storia d'amore (e vittorie) che dura da 100 anni

Il 24 luglio 1923 Edoardo assumeva la guida della società e poco dopo arrivò la prima grande squadra, con la Juve del Quinquennio. Nel dopoguerra toccò all'Avvocato e alla Juve dei danesi, poi al quella del trio Boniperti-Charles-Sivori sotto la guida del fratello Umberto. I due hanno continuato ad essere accanto alla squadra anche nei decenni successivi, poi dal 2010 a pochi mesi fa il lungo regno di Andrea Agnelli

gianni agnelli

Gli Agnelli e la Juve, storia di un amore che dura da 100 anni

Nessuna squadra di calcio al mondo può contare su una proprietà che da così tanto è alla guida della società. Il 24 luglio 1923 Edoardo Agnelli diventava presidente della Juventus e da allora le sorti della famiglia si sono indissolubilmente legate ai colori bianconeri.

La Juve del Quinquennio

In questi 100 anni è cambiato tutto nello sport, nella vita, nel mondo ma non questo legame, che si è tramandato di generazione in generazione fino ad arrivare ai giorni nostri. La storia della Juve e degli Agnelli è anche e soprattutto sinonimo di vittorie.

Edoardo impiego alcuni anni prima di arrivare ad allestire una formazione competitiva, ma poi dal 1930 ecco la Juve del Quinquennio, quella dei cinque scudetti consecutivi, quella di Combi, Rosetta e Caligaris, una filastrocca che i bambini dell'epoca avevano imparato benissimo, visto che a quei tempi si poteva imparare a memoria la formazione di una squadra, altro che rose extra large come nei tempi moderni.

La Juve danese dell'Avvocato

La favola di quella Juve super vincente e del suo giovane presidente viene spezzata da un tragico incidente nel luglio del 1935 che tolse la vita a Edoardo Agnelli. E per i colori bianconeri iniziò una lunga fase difficile, durata fino al 1950. A porre fine al dominio del Grande Torino nel dopoguerra fu proprio la Juve, quella dei danesi Hansen e Praest e di un giovane Giampiero Boniperti, all'epoca attaccante. Ma soprattutto di Gianni Agnelli, figlio di Edoardo, che era salito da poco alla presidenza.

Forse perché legata alla sua gioventù, ma quella Juve per l'Avvocato è stata la più forte di ogni epoca, come dichiarò nel 1997, in occasione del centenario della società. Per il fratello Umberto, invece, la più bella fu quella a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quella del trio composto dall'angelo dalla faccia sporca Omar Sivori, dal gigante buono gallese John Charles e da un Boniperti maturo, che nel finale di carriera aveva arretrato il suo raggio d'azione. 

Il trio Boniperti-Charles-Sivori e Umberto Agnelli

Quella Juve, che ebbe come presidente il giovane Umberto Agnelli vinse tre scudetti in quattro anni, regalò momenti di e calcio indimenticabili e diventò la fidanzata d'Italia negli anni della grande immigrazione verso Torino e la Fiat. Tanto che per una precisa scelta della proprietà negli anni successivi vennero acquistati molti giocatori che erano originari del centro-sud: da Pietro Anastasi a Beppe Furino, da Antonello Cuccureddu a Franco Causio. Tutti giocatori che, assieme al torinese (e bianconero fin dagli esordi nelle giovanili) Roberto Bettega furono l'asse portante della Juve degli anni Settanta.

Un periodo che non vide più un Agnelli alla presidenza, ma quel Giampiero Boniperti fortemente voluto dall'Avvocato alla guida della società per fare da collante tra passato e presente, mentre lui ne era il patron e il gran consigliere. Con la riapertura delle frontiere (dopo gli anni dell'autarchia post disastro Mondiale del 1966 per l'Italia eliminata dalla Corea) la Juve scelse l'irlandese Liam Brady nel 1980. Di lui Gianni Agnelli disse, durante l'amichevole in famiglia a Villar Perosa, diventata negli anni un appuntamento abituale dell'estate bianconera: "Con quel sinistro può fare ciò che vuole". Due anni e altrettanti scudetti.

Gli anni di Le roi Platini e di Agnelli patron

Ma la Juve voleva di più, voleva quell'Europa che le era stata sempre negata, mentre il Milan e l'Inter avevano sollevato già due volte la Coppa dei Campioni. Ed allora, grazie alla potenza economica e ai rapporti internazionali della Fiat, ecco sbarcare a Torino nel 1982, in piena Guerra Fredda, quando l'Est Europa sembrava ancora proibito, il polacco Zibì Boniek, che l'Avvocato soprannominò il Bello di Notte, perché giocava le sue partite migliori proprio in Europa e nei mercoledì sera. Ma soprattutto il genio assoluto di Michel Platini, forse il giocatore straniero più forte che abbia mai vestito la maglia bianconera. "Ci è costato un tozzo di pane, ma lui sopra ci ha messo tanto caviale", disse del francese Gianni Agnelli, il giorno in cui Le Roi annunciò il ritiro.

Palloni d'Oro in serie per lui, scudetti e coppe di ogni genere per la Juve, negli anni in cui Platini era il leader bianconero, anche se la notte dell'Heysel è passata alla storia per i 39 morti e una immane tragedia, più che per il primo successo bianconero nella maggiore competizione europea. Dal 1986 al 1994 i colori bianconeri conobbero una lunga astinenza: qualche coppa Italia, due volte la Uefa ma lo scudetto era sempre stato obiettivo lontanissimo.

Dal flop Maifredi-Montezemolo a quello del Boniperti bis

Ed allora la Juve tentò una rivoluzione a 360 gradi nel 1990, chiamando il rampante Gigi Maifredi sulla panchina e Luca Montezemolo alla guida della società. Un fiasco clamoroso, con la Juve che rimase addirittura fuori dalle coppe europee per la prima volta dopo trent'anni. Non andò meglio con la restaurazione del triennio successivo, di nuovo Boniperti alla guida della società (ma col ruolo di amministratore delegato) e il pluridecorato Giovanni Trapattoni in panchina. Ed allora nell'estate del 1994 l'Avvocato lasciò il controllo delle operazioni al fratello Umberto, che diventò il patron bianconero, scegliendo la triade Moggi-Giraudo-Bettega per la conduzione societaria e il giovane Marcello Lippi per la panchina.

Gli anni d'oro sotto la guida della Triade (e di Lippi)

Una Juve che negli anni precedente aveva speso a piene mani per vincere poco o nulla, tornò prima a vincere in Italia, poi in Europa ed infine a salire sul tetto del mondo. Vincere e vendere era diventato il motto della società, perché Umberto Agnelli non ne voleva sapere di sperperare denaro nello sport. Ed allora ecco via via il saluto ai vari Vialli, Baggio, Vieri e Zidane, sostituiti ogni volta in meglio. Dopo la poca fortunata parentesi con Ancelotti, il ritorno di Lippi riporta la Juve ai vertici, ma non sul tetto d'Europa. Sono gli anni di Alex Del Piero e Gigi Buffon, ma anche Nedved e Trezeguet, leader di una squadra comunque sempre competitiva anche in Europa.

Nel frattempo la scomparsa prima dell'Avvocato e poi del Dottor Umberto aprono un vuoto enorme, Calciopoli e la successiva retrocessione in B fanno finire in modo inglorioso la gestione della triade. La Juve conosce lunghi anni difficili, in cui la vittoria diventa una chimera. Fino all'estate del 2010, quando tocca di nuovo ad un Agnelli, il giovane Andrea, figlio di Umberto, assumere la presidenza della squadra. E, dopo una prima stagione difficile, con Beppe Marotta ad e uomo mercato e Antonio Conte in panchina, ecco nascere la leggenda della squadra degli ultimi anni.

Il ritorno ai vertici e i nove scudetti con Andrea Agnelli

Quella dei nove scudetti di fila, del nuovo Juventus Stadium a lungo roccaforte inviolabile, una serie di vittorie proseguita con Max Allegri ed infine Maurizio Sarri. La coppa dalle grandi orecchie, però, non arriva mai e diventa una ossessione, Andrea Agnelli prova a regalare il pluri Pallone d'Oro Cristiano Ronaldo alla sua squadra per rompere l'incantesimo. Ma non basta neppure quello. Si esaurisce il ciclo vincente dei Marchisio, dei Chiellini, di Buffon. E nello scorso autunno, con i conti della società in profondo rosso e le inchieste giudiziarie alle porte, Andrea Agnelli si fa da parte.

E siamo al presente, all'oggi, a Ferrero e Scanavino alla guida della società, con la benedizione di John Elkann, nuovo patron bianconero. Un cognome diverso, ma sempre la stessa famiglia a seguire da vicino le cose di casa Juve.

Massimo De Marzi

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